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Il mercato discografico resiste al Coronavirus, ma …

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Lo scorso 23 marzo 2021 è stato pubblicato il rapporto della FIMI (Federazione dell’Industria Musicale Italiana) sullo stato di salute del mercato discografico, sulla base dell’annuale Global Music Report elaborato dall’IFPI, l’organizzazione che rappresenta l’industria fonografica internazionale.

I dati sono molto interessanti: il mercato globale della musica registrata è cresciuto del 7,4% e quello della musica italiana è cresciuto dell’1,4%.

La crescita è trainata dallo streaming che ha più che compensato il calo dei ricavi di altri formati, inclusi il segmento fisico, che è diminuito del 4,7%, e i diritti connessi, che sono diminuiti del 10,1% a causa della pandemia.

L’Italia ha mostrato una forte affermazione dei consumi digitali che hanno registrato un notevole aumento degli abbonamenti streaming premium e dei consumi sulle piattaforme social dove i ricavi da modelli sostenuti dalla pubblicità sono cresciuti del 31,59%.

Non è da meno il video streaming, che segna + 24,97%.

Il grande utilizzo di canali come Instagram e Facebook durante la pandemia ha dato un’accelerata a queste piattaforme, oltre ai tradizionali servizi come Spotify, Amazon Music, Apple Music e altri.

La quota di mercato del digitale raggiunge l’81% di tutti i ricavi dell’industria in Italia, contro il 72% del 2019.

Complessivamente, tra fisico, digitale e diritti, il mercato ha segnato nel 2020 + 1,44% rispetto al 2019.

Si è di fatto conclusa la transizione al digitale del mercato musicale italiano.

Le case discografiche hanno confermato gli investimenti e hanno proseguito nella pubblicazione di novità discografiche anche nella fase più critica.

Nel 2020 sono stati certificati 156 album tra oro e platino, poco meno dei 166 del 2019.

La top ten della classifica annuale degli album più venduti è stata occupata al 100% dal repertorio italiano, ed è cresciuto il numero di artisti che hanno ottenuto significativi risultati di vendita: le opportunità offerte dal digitale hanno moltiplicato e amplificato il successo degli artisti.

Nonostante il segmento fisico sia stato penalizzato nel 2020 dalle ripetute chiusure, solo in parte compensate dalla crescita dell’e-commerce, il vinile continua a mostrare una crescita costante, segnando un incremento del 2,50%.

Grande sofferenza, invece, si registra inevitabilmente nel segmento dei diritti, dove la chiusura degli esercizi commerciali, delle attività di svago e della ristorazione ha segnato una perdita di oltre 18 milioni di euro con un calo superiore al 31%.

In definitiva, lo studio condotto dalle Istituzioni che rappresentano l’industria discografica mondiale e quella italiana dimostra che il Coronavirus non ha arrestato la crescita dell’industria discografica, anzi, ha accelerato la transizione al digitale.

https://www.fimi.it/mercato-musicale/dati-di-mercato/mercato-discografico-mondiale-cresce-del-7-4-nel-2020-grazie-alla-spinta-dei-consumi-online.kl

Quando nel 2018 abbiamo lanciato Worldwide Open Music non potevamo certo prevedere che tre anni dopo sarebbe scoppiata una terribile pandemia, non siamo veggenti, però abbiamo una discreta competenza in materie come l’economia, il diritto e l’informatica, oltre alla musica, per cui avevamo intuito che la transizione al digitale avrebbe comportato un progressivo azzeramento dei benefici derivanti agli artisti dai diritti d’autore, cosa che sta in effetti accadendo.

Abbiamo abbracciato l’ideale di Richard Stallmann, traslando il concetto di copyleft dal mondo dell’informatica a quello della musica, perché eravamo e siamo sempre più convinti che le pastoie del copyright non tutelano affatto gli artisti, anzi, vanno a loro discapito.

Non abbiamo inventato niente: il web era già pieno di contenuti musicali (e non solo musicali) copyleft.

La nostra idea innovativa era, ed è, creare, diffondere o contribuire alla diffusione di musica vera e propria – non solo di patterns o demo – libera da restrizioni di copyright.

Nel 2018 il mercato discografico boccheggiava e tutti facevano finta di niente: il pubblico scaricava illegalmente musica dal web, gli artisti tiravano a campare con le esibizioni dal vivo e le major si concentravano solo sugli artisti che garantivano loro un sufficiente ritorno dagli investimenti.

In tutto questo, chi ci perdeva, alla fine, era la musica.

L’offerta musicale era ormai un piattume che stava portando all’estinzione di interi generi musicali (il blues, la fusion, il rock, il punk, il metal, per esempio) e presto avrebbe portato all’estinzione anche degli artisti, sostituendoli con un’orda di tribute e cover band a basso costo.

Cosa è cambiato con il Coronavirus?

Come abbiamo visto, le restrizioni imposte dalla necessità di contrastare la diffusione della pandemia hanno accelerato la transizione al digitale, e questo ha ampliato le possibilità per molti artisti, non solo quelli emergenti, di proporre la propria musica, favorendo la diversificazione e la differenziazione dell’offerta musicale.

Ma questa transizione, governata esclusivamente dall’industria discografica, sta generando un nuovo paradosso.

È semplicissimo pubblicare la propria musica su Amazon, Apple Music, Deezer, Google Music e similari: basta affidarsi a una qualsiasi delle tantissime label “intermediarie” che ammiccano dai motori di ricerca, e pagando poche centinaia di Euro il gioco è fatto!

Il mercato discografico è salvo: le label incassano sia dagli artisti, che pagano la mediazione, sia dal pubblico, che paga l’abbonamento al servizio.

Ecco come si ottengono i numeri che abbiamo letto nel report.

Ma veniamo agli artisti.

Facendo una semplice ricerca sul web si apprende che le piattaforme streaming, nella migliore delle ipotesi, pagano all’autore $ 0,004 per ogni ascolto, il che vuol dire che occorrono 1.000 ascolti per ottenere $ 4,00 (quattro dollari).

Se pensiamo che in Italia, per ottenere il disco d’oro, occorre vendere 25.000 copie, l’autore che avrà ricevuto un numero di ascolti da disco d’oro arriverà a incassare la bellezza di $ 100,00 (pressappoco cento Euro).

Ma non basta: l’autore, cedendo alla label o al distributore i propri diritti (il copyright), impedisce persino a se stesso di far circolare la propria opera in modo più proficuo.

Il copyright non è un buon affare per gli autori.

Abbiamo creato Worldwide Open Music, MusicAq magazine e Radio MusicAq perché vogliamo creare, diffondere e contribuire a diffondere musica nuova e libera da restrizioni di copyright cosicché gli artisti possano avvicinarsi al pubblico che assisterà (speriamo presto) ai loro concerti, che acquisterà i loro dischi, che leggerà i loro libri, che parteciperà alle loro lezioni e ai loro seminari.

Non chiediamo denaro né agli autori né agli ascoltatori.

Amiamo tutta la musica, cioè tutti i generi musicali.

Non ci piace essere imitati (imitare è da mediocri), ma saremmo felici e orgogliosi se molti ci copiassero (copiare è da geni) perché vorrebbe dire che la musica e gli artisti avranno trovato un nuovo grande spazio per esprimersi liberamente.

Perché lo facciamo?

Perché siamo follemente innamorati della musica.

(WOM)