Teoria musicale base: 1 – il pentagramma

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Desiderate imparare a leggere e scrivere la musica?

Oppure sapete già farlo, ma desiderate approfondire la vostra conoscenza della teoria musicale?

Perfetto.

Benvenuti nella WOMschool!

In questo articolo ci occuperemo della prima cosa di cui c’è bisogno per leggere e scrivere la musica: il pentagramma.

Il linguaggio scritto della musica

Tutti danno per scontato che un racconto deve essere scritto su un pagina per essere letto, e che le parole devono essere formate da una successione ordinata di segni, cioè di lettere, per essere comprese.

Anche per leggere e scrivere la musica occorrono una pagina, cioè lo spartito, e una successione ordinata di segni, cioè le note.

Ma le analogie tra un racconto e uno spartito musicale non finiscono qui.

I libri che conosciamo oggi sono molto diversi da quelli che esistevano nell’antichità: gli antichi egizi, per esempio, usavano dei rotoli di papiro sui quali tracciavano geroglifici.

Allo stesso modo, anche lo spartito è cambiato nel corso del tempo, fino ad assumere la forma e le caratteristiche che ha oggi e che tutti conosciamo.

La tradizione orale

Nella regione mediterranea, durante l’età classica (VIII secolo a.C. – VI secolo d.C.), esisteva un sistema grafico che fissava per iscritto la musica, ma in Europa la scrittura musicale è rimasta sconosciuta fino al medioevo, e le melodie liturgiche venivano tramandate esclusivamente per tradizione orale da maestro a discepolo.

Sant’Isidoro di Siviglia (Cartagena, 560 circa – Siviglia, 4 aprile 636) sentenziava che «se i suoni non sono appresi a memoria dall’uomo, scompaiono, perché non si possono scrivere».

I codici anteriori all’VIII secolo d.C. (701 – 800) contengono solo i testi dei canti liturgici, ma sono privi di qualsiasi notazione musicale.

Le prime scritture musicali

I primi tentativi di scrittura musicale (cosiddetta “paleofranca”) risalgono al IX secolo d.C. (801 – 900), quando iniziano a comparire dei segni posti a margine di testi che spesso sono strofe di poesia classica.

Bisognerà attendere il X secolo d.C. (901 – 1000) per veder comparire segni assimilabili alle note moderne.

Il più antico codice notato è infatti del 930 d.C., ed è il Cantatorium C (Codex Sangallensis 359) di San Gallo.

Di Unbekannter Schreiber – Codex Sangallensis 359, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5049770

Nel corso del tempo, nascono anche altre scuole scrittorie, monastiche o vescovili, che diventano centri di creazione e diffusione di scrittura musicale, e ognuna adotta un proprio particolare sistema di notazione.

Note senza melodia né ritmo

Per molto tempo la notazione è adiastemica, cioè utilizza neumi (segni) e litterae significativae (lettere aggiuntive), ma non indica il valore degli intervalli tra i suoni, l’altezza delle note e il ritmo.

Di Unknown writers and painters – de:wikipedia, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2045999

Per lungo tempo la melodia, non descritta dalle note utilizzate, viene ancora tramandata oralmente.

In altre parole, i codici fornivano indicazioni musicali, ma solo a chi già conosceva bene il brano da cantare.

Di conseguenza, i libri liturgici-musicali non avevano un’utilità nel momento della celebrazione (chi non conosceva a memoria la melodia del brano non poteva comprenderla dallo “spartito”), bensì venivano sfruttati come opere di consultazione o di insegnamento.

L’invenzione del rigo

Nell’XI secolo d.C. (1001 – 1100) appare il rigo musicale.

Già nel secolo precedente si era già cercato di trovare una forma per indicare gli intervalli per le note.

Il rigo, quindi, non compare all’improvviso, ma progressivamente: l’amanuense che scriveva musica prese l’abitudine di scrivere il testo su righe alternate, così da utilizzare una riga per scrivere la musica presa come riferimento spaziale: le note più acute venivano scritte sopra la riga, quelle gravi al di sotto.

Con questa geniale intuizione, le note potevano rappresentare (in base alla loro forma) la durata e (in base alla loro posizione rispetto al rigo) l’altezza del suono, anche se ancora non indicavano con precisione il valore degli intervalli tra i suoni (cioè quanto alto o quanto basso è un suono rispetto all’altro).

Così le linee divennero due, una rossa per il fa e una gialla per il do.

Poco per volta si avvetì la necessità di aggiungere altre linee, per rappresentare con sempre maggiore precisione l’altezza di ogni nota rispetto alle altre.

Il tetragramma

Con sole quattro linee, il canto gregoriano, il cui ambito vocale non è esteso, poteva essere essere scritto comodamente.

L’invenzione del “rigo” (termine con il quale ci si riferisce oggi, per estensione, all’intero spartito) viene attribuita a Guido monaco (oppure Guido Pompesiano), meglio noto come Guido d’Arezzo, ma è in effetti una semplificazione storica.

Questo geniale monaco camaldolese diede un nome alle note (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La, Sj) e perfezionò il tetragramma (termine che deriva dall’unione delle parole greche tetra, quattro, e gramma, scrittura) che però aveva già una sua diffusione.

Egli codificò la notazione, cioè il modo di scrivere le note, definendo le posizioni di esse sulle righe e negli spazi del rigo musicale, proponendo un sistema unificato per la loro scrittura.

Il pentagramma

L’aggiunta della quinta linea è attribuita a Ugolino da Orvieto (anche detto Urbevetano, oppure Ugolino di Francesco da Orvieto o anche Ugolino da Forlì), vissuto tra il 1380 e (almeno) il 1457.

Nasce così il pentagramma (termince che deriva dall’unione delle parole greche penta, cinque, e gramma, scrittura).

Il pentagramma, o rigo musicale (nella moderna accezione estensiva), è costituito da cinque linee parallele, separate da quattro spazi.

Sulle linee e negli spazi si scrivono le note, le pause e gli altri simboli.

La numerazione delle linee e degli spazi viene, per convenzione, effettuata con ordine crescente dal basso verso l’alto (la prima riga è quella più in basso e la quinta riga è quella più in alto, così è anche per gli spazi).

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I tagli addizionali

Come abbiamo appena visto (e ascoltato), dal basso verso l’alto del pentagramma i suoni delle note diventano sempre più acuti; viceversa, diventano sempre più gravi.

Quando una nota produce un suono più grave o più acuto delle note che possono essere scritte sulle righe o negli spazi del pentagramma, si utilizzano i tagli addizionali.

I tagli addizionali possono essere “in testa” (cioè come se si volesse tagliare in orizzontale la nota), o “in gola” (cioè sopra o sotto la nota, a seconda della sua posizione rispetto al rigo musicale).

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Quando la rappresentazione di una nota sul pentagramma richiede troppi tagli addizionali tanto da rendere difficoltosa la lettura, è prassi comune effettuare un cambio di chiave oppure utilizzare la dicitura 8va.

Cambio di chiave nel pentagramma
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Il pentagramma può essere:
– semplice: per la voce umana e per gli strumenti musicali di limitata estensione fonica, come archi e fiati, la cui gamma (o estensione) contiene un solo registro

– doppio: è formato da due pentagrammi uniti da una graffa, ed è usato da strumenti come il pianoforte, l’arpa, l’harmonium, la fisarmonica e la celesta, la cui gamma comprende anche i suoni degli strumenti citati in precedenza; i due pentagrammi permettono di distinguere i suoni da prodursi al pianoforte con la mano destra (rigo superiore) da quelli da prodursi con la mano sinistra (rigo inferiore), ciò tuttavia con molte eccezioni

– triplo: usato prevalentemente per la notazione delle musiche d’organo; due pentagrammi per le tastiere e uno per le note affidate alla pedaliera

– multiplo: per le partiture dei complessi strumentali, vocali strumentali e dell’orchestra.

In conclusione

Suonare uno strumento musicale senza avere dimestichezza con il pentagramma è come parlare senza saper leggere e scrivere.

Prima dell’avvento della tecnologia, lo spartito musicale era il modo più efficace per tramandare la musica ai posteri.

Verrebbe da pensare che il pentagramma sia destinato via via a scomparire, per essere soppiantato dai moderni sistemi digitali.

Eppure è molto probabile che ciò non accadrà.

Certo, si potrà registrare su supporti sempre più sofisticati, i software saranno perfezionati e potranno riconoscere e interpretare ogni singolo suono, ma per conoscere ed eseguire correttamente un brano i musicisti dovranno comunque leggerlo, non essendo sufficiente ascoltarlo.

Lo spartito del futuro sarà sicuramente diverso da quello odierno.

Nuovi generi musicali, nuovi strumenti, nuovi suoni, nuove possibilità di controllo del suono, renderanno necessari nuovi segni, nuove annotazioni.

Ma qualunque sia il grado di complessità di una musica, lo spartito dovrà sempre e comunque essere chiaro e semplice, oltre che uniforme, cioè compreso e adottato da tutti i musicisti del pianeta.

Grazie per l’attenzione.